Nel bel libro-intervista ad Andrea Camilleri di Marcello Sorgi, La testa ci fa dire. Dialogo con Andrea Camilleri, Palermo, Sellerio, 2000, ad un certo punto l’autore scrive:

«Io penso che uno si accorge di essere siciliano o comunque siciliano in un certo modo quando esce dalla Sicilia. Mi ricordo una definizione […] che diceva che i siciliani si dividono in due grandi categorie: di scoglio e di mare aperto.

Di scoglio sono quelli che se si allontanano dalla Sicilia, il secondo giorno cominciano ad avere delle crisi di astinenza, gli mancano tutta una serie di cose […] e il terzo giorno devono assolutamente tornare.

Di mare aperto sono quelli che fanno della loro sicilitudine una specie di patrimonio personale e lo utilizzano per vivere una vita diversa. In Sicilia ci tornano perché sta loro nel cuore, ma comunque scelgono di proiettarsi su un altro orizzonte».

Andrea Camilleri, pur definendola «schematica come ogni definizione», confessa di sentirsi di appartenere alla categoria dei siciliani di mare aperto: «Uno poi lentamente si abitua, si guadagna i gradi di marinaio in questo mare aperto, come uno che diventa capitano di lungo corso, tanto per restare nel paragone. Prima stava sui pescherecci, poi invece comanda un naviglio di medio tonnellaggio col quale può allontanarsi. Ci si abitua, si piglia la patente».

Continua ancora Camilleri: «A me questa storia della “sicilitudinemi pesava parecchio, come credo che a un negro pesi la “negritudine”. Io non ho mai ritenuto un fattore positivo la “sicilitudine”, per me è un fattore negativo».

Per quello che mi riguarda, io sento di appartenere alla categoria dei siciliani di mare aperto. Sono andato via definitivamente dalla Sicilia più di dieci anni fa, dopo gli anni universitari a Padova e un breve rientro temporaneo in Sicilia dopo la laurea, e da allora non mi sono più fermato, prendendo sempre più il largo verso mete provvisorie e lontane.

Ho sempre trovato soffocante, asfittica, ‘castrante’, nel pieno senso del termine, la ‘sicilitudine’, questa sorta di rassicurante e ipocrita auto-illusione che caratterizza e giustifica l’immobilità, la stagnazione, la rassegnazione di tanti ‘siciliani di scoglio’.

Sin da piccolo sono sempre stato affascinato dagli estremi, dall’avventura, dal rischio, dalla ricerca dell’ignoto, dalla continua ricerca dei propri limiti e dalla sfida in essa contenuta. E mi sono sempre messo alla prova.

Il mare aperto mi ha sempre attirato. Ricordo le grandi, lunghe, lente nuotate nel mare di Sicilia, al largo, fino a quasi non scorgere più la riva, fermato solo dal timore di incrociare qualche motoscafo o peschereccio. Ricordo il disappunto e la malinconia nel tornare indietro, combattuto dal desiderio fortissimo di proseguire verso l’orizzonte.

Sono sempre stato affascinato dalle profondità del mare, dal blu inebriante, stordente dei suoi abissi. Ho praticato a lungo l’apnea con entusiasmo e passione, e al tempo stesso con disciplina, metodo e rigore quasi zen, vivendo pienamente la sacralità dell’incontro fra uomo e natura in condizioni estreme.

Ho lavorato molto su di me, ho combattuto contro le resistenze interne che mettiamo inconsciamente in atto contro noi stessi, ho imparato a mettermi interiormente in movimento. Ho imparato ad apprezzare il valore, la libertà, la ricchezza e la bellezza dell’errare.

Ho imparato a diventare un errante, un nomade, a riprendere movimento, a sentire di non avere più fissa dimora e percepire il mondo intero come la mia casa.

Ho imparato ad accettare mete provvisorie, a mettermi in viaggio spinto dall’istinto, dall’intuito, dal desiderio del nuovo, senza troppi calcoli o ragionamenti.

Voglio cogliere e assaporare ogni possibile sfumatura della bellezza di questo mondo e di questa vita finché mi è dato di farlo, senza risparmiarmi, con generosità, senza egoismi, spinto solo dalle correnti e dai venti e dalla voglia di scoprire territori inesplorati.

Questo è essere ‘uomini di mare aperto’. Questo è vivere.