È sempre difficile scattare delle fotografie di luoghi famosi e già fotografati migliaia di volte, da ogni angolazione e con qualunque tecnica, in qualsiasi stagione e condizione atmosferica, senza cadere nel rischio del déjà vu, dello stereotipo, della foto cartolina già vista e rivista, o all’opposto scivolare nelle insidie della foto pretenziosamente eccentrica che tenta di spacciare la ricerca dell’artificiosità fine a se stessa, la bizzarria di un punto di vista inusuale, l’assoluta casualità dell’inquadratura e della composizione, la presenza non intenzionale di elementi sfocati o mossi, come segni di talento e originalità artistica.

Se poi il luogo in questione è Venezia, uno dei simboli dell’immaginario turistico collettivo, allora la faccenda si fa davvero complicata. Venezia è sempre affollata da una marea eterogenea di turisti che la invadono in ogni periodo dell’anno. Quest’umanità varia e distratta si accalca in ogni angolo della città alla ricerca dei luoghi più celebri da fotografare, rendendo di fatto le strette calli veneziane del tutto simili ad angusti e brulicanti corridoi di un formicaio umano, animati giorno e notte da un incessante andirivieni di persone in fila indiana che procedono ammassate nei due sensi di marcia, lanciando occhiate distratte alle vetrine dei negozi e ai menu dei ristoranti, per poi sfociare e riversarsi, come un fiume in piena, nei campi e nelle piazze più famose.

Riuscire a scattare delle foto decenti in simili condizioni, soprattutto se si è parte integrante di quella marea di turisti e si hanno a disposizione solo due giorni, come abbiamo fatto noi nel fine settimana della scorsa Epifania, diventa davvero difficile.

Le prime fotografie che ho scattato – a dire il vero, poco convintamente – nel primo pomeriggio, mentre ci dirigevamo verso l’albergo, mi hanno infatti deluso: scialbe, insignificanti, alcune decisamente brutte. Sembrava fossi diventato d’un tratto incapace di scattare delle foto accettabili. Ho capito che non mi trovavo nello stato d’animo giusto, c’era troppa gente in giro; allora ho deciso momentaneamente di desistere e ho riposto la fotocamera nella custodia. Erano quasi vent’anni che non andavo a Venezia e ho cercato di godermi la città come visitatore, senza l’ossessione di dovere scattare delle foto a tutti i costi.

Solo in tarda serata, dopo aver cenato ed essere rientrati all’hotel, sono uscito una seconda volta, da solo, verso le undici di sera, facendo affidamento sul fatto che a quell’ora e con quel freddo intenso ci sarebbe stata poca gente in giro. Avevo intenzione di scattare delle foto notturne in piazza San Marco, attirato dal gioco prospettico delle Procuratie e dei colonnati che avvolgono la piazza da tre lati, dalla sontuosa magnificenza della Basilica e del Palazzo Ducale rischiarati dall’illuminazione notturna, dalle due Colonne di San Marco e San Todaro che fronteggiano superbe il bacino San Marco.

Mi affascinava in particolare l’idea di riuscire a cogliere quella sottile e ambigua atmosfera dell’Epifania – che sa di feste finite e ricordi, intrisa di malinconia e leggeri rimpianti – in una città decadente e inattuale come Venezia, di per sé sospesa in una dimensione atemporale e quasi metafisica, in cui gli echi della storia e del passato glorioso sembrano risuonare ad ogni angolo, ma flebili ed estenuati, come deboli presenze fantasmatiche gravate dal peso di una storia millenaria.

Nonostante alcune delle fotografie scattate quella notte mi avessero soddisfatto, c’era sempre qualcosa di indefinito di cui percepivo confusamente i contorni ma che non riuscivo a inquadrare e a mettere a fuoco del tutto.

È stato poco dopo, mentre mi trovavo sotto i portici della Biblioteca nazionale Marciana, intento a fotografare la fuga prospettica del colonnato che sotto la strana luce fredda delle decorazioni di Natale assumeva un’insolita aria fantastica e spettrale, che ho avuto chiara, grazie a quell’improvvisa e rivelatrice sensazione di straniamento, la ragione di quel disagio: quello che nelle mie aspettative e nelle mie intenzioni doveva essere un angolo di Venezia da catturare e rappresentare nel suo aspetto di stereotipata malinconia, pittoresca e decadente, tipicamente veneziana, rivelava invece, sotto quelle luci fredde e stanche che ora sembravano inappropriate e fuori luogo, un lato inatteso e spiazzante di sé, si mostrava come una visione inedita, mi regalava la possibilità di uno sguardo nuovo e libero da preconcetti sulla realtà.È stato allora che mi sono reso conto che fino a quel momento non avevo fatto altro che cercare di scattare delle foto che assomigliassero ad altre foto di Venezia, non di cogliere la realtà come mi si presentava in quel particolare momento.

Ero animato dal proposito manieristico di riuscire a riprodurre la rappresentazione fotografica di una Venezia che si era sedimentata dentro di me attraverso la visione di migliaia di foto e film che ne avevano plasmato indelebilmente l’immagine archetipica e simbolica.

Ero preda della suggestione potente che nel corso degli anni avevano lasciato nel mio immaginario le foto di Gianni Berengo Gardin, Fulvio Roiter e una moltitudine di altri fotografi, alcuni famosi, altri sconosciuti.

Non stavo cercando di cogliere e rappresentare la realtà, quella particolare realtà contingente che mi si presentava in quel luogo e in quel momento. Stavo solo applicandomi con metodo e zelo per cercare di replicare la rappresentazione codificata di una realtà, con caratteristiche e stilemi manieristici.

Allora ho riflettuto su cosa significasse per me fotografare. Ho ripensato alla mia concezione di fotografia, a quello che negli anni avevo elaborato, più o meno inconsciamente, sull’essenza della fotografia, in cosa consistessero per me il valore e la bellezza di una foto. E soprattutto mi sono interrogato sulle ragioni del mio fotografare: perché lo facessi, cosa stessi ricercando, cosa mi proponessi di raggiungere al di là del piacere effimero e momentaneo regalatomi dall’inquadratura e dallo scatto.

«La fotografia per me equivale a tenere un diario. Tengo un diario fotografico di quello che faccio e posso scattare foto in qualsiasi momento. Sono il testimone di ciò che attira il mio sguardo.»

«Ogni volta che premo il pulsante dello scatto, è come se conservassi ciò che sta per sparire.»

«Fotografare mi offre una presa immediata sul mondo che posso registrare attraverso un dettaglio particolare, significativo. È un modo di capire e di vivere più intensamente.»

«Ci sono fotografi che inventano, altri che scoprono. Per quanto mi riguarda, sono interessato alle scoperte, non per fare delle prove, degli esperimenti, ma per catturare la vita stessa.»

«Il fatto di cercare crea una tensione, ed è importante essere soli con questa tensione, perché bisogna cercare. La fotografia è difficile.»

Non sono considerazioni mie, ma dichiarazioni di Henri Cartier-Bresson, un fotografo francese che amo particolarmente, di cui sottoscrivo ogni parola.

Ho sempre considerato la fotografia come una forma di conoscenza del mondo, più che un’arte. Più vicina alla filosofia e alla scienza, in questo senso. Mi ha sempre affascinato la possibilità che essa offre di catturare l’istante, di congelare l’hic et nunc, di fermare il tempo.

La seduzione, il fascino ammaliante e conturbante che l’azione dello scatto fotografico, e la fotografia, portano con sé è principalmente dovuto al fatto di catturare un attimo e un luogo circoscritti nel tempo e nello spazio, e immortalarli, fissarli per sempre in un’immagine che sopravvive alla realtà stessa, sottraendoli alla morte e all’oblio. Il contingente e l’accidentale diventano assoluti, il transitorio diventa permanente, il caduco diventa eterno. In questo suo essere attestazione reale e sempre presente, manifestazione paradossale e visibile di un passato che non esiste più, la fotografia manifesta tutta la sua natura “spettrale” (come la definisce Roland Barthes in quel breve e bellissimo saggio che è La Camera Chiara – Nota sulla Fotografia, scritto nel 1979, a pochi mesi dalla morte) e lascia intravedere il “punctum”, quell’elemento a prima vista insignificante e secondario, quel dettaglio apparentemente estraneo all’ambito delle informazioni che la fotografia fornisce, che colpisce la sensibilità dello spettatore, suscitando quell’emozione indefinibile, quel conturbante senso di straniamento che alcune fotografie sono in grado di suscitare.

Le foto che ci colpiscono sono quelle che, lacerando in modo impercettibile il velo delle apparenze e lasciando intravedere uno squarcio nel reale, ci costringono a rivedere i nostri pregiudizi e le nostre aspettative, ci spingono a rimettere in discussione le nostre certezze, scuotendo il nostro immaginario cristallizzato e aprendo la possibilità di una visione nuova sul mondo.

«Tutto quello che facciamo è determinato dalla concezione che abbiamo del mondo.»

«Quando si arriva in un posto, è bene sbarazzarsi dei pregiudizi, non bisogna cercare di giustificare le proprie idee preconcette. Bisogna attenersi ai fatti, cercare di analizzarli, modificare le prime impressioni grazie a quello che si osserva invece di confermare i propri pregiudizi. In fondo, non c’è niente da dimostrare, senza confermare una tesi.»

Memore di queste osservazioni di Cartier-Bresson, semplici quanto ardue da mettere in atto, decisi che il giorno successivo avrei cercato di liberarmi quanto più possibile dai miei pregiudizi e dalle immagini precostituite, e mi sarei lasciato guidare dal fascino della scoperta.

Devo per questo ringraziare l’amico Paolo, veneziano ed esperto conoscitore di Venezia, per averci fatto da guida per l’intera giornata di sabato e averci introdotto alla bellezza silenziosa e nascosta degli angoli meno noti – almeno per noi “foresti” – del Sestiere Castello, luoghi che per l’atmosfera e le loro caratteristiche non avrei mai immaginato di trovare a Venezia.

Le condizioni del tempo, anche al mattino, erano ottime, considerando che si era ai primi di gennaio: cielo terso, sole splendente, aria nitida e freddo pungente che invogliava a fare frequenti pause per un cicheto ristoratore nei tanti bacari che animano la città.

Dopo la doverosa visita alla Basilica di San Marco ed essere riusciti ad ammirare il suo interno nell’ora in cui vengono accese le luci che illuminano i mosaici, facendoli risplendere in tutto il loro straordinario splendore di una bellezza che inebria e stordisce – devo riconoscere che uno dei luoghi in cui sono stato più vicino ad accusare i sintomi della cosiddetta Sindrome di Stendhal, insieme al Pantheon di Roma, l’interno della Cattedrale di Santa Maria del Fiore a Firenze e la Cappella Ovetari della Chiesa degli Eremitani a Padova, è proprio l’interno della Basilica di San Marco – ci siamo poi diretti verso il Sestiere Castello, posto all’estremità orientale della città.Attraversando un dedalo di calli, ponti e campielli, abbiamo iniziato una lenta, lunga e piacevole passeggiata addentrandoci nella parte orientale del Sestiere San Marco, lungo un percorso costellato di vecchie legatorie, piccole botteghe, osterie e laboratori artigianali di vetro, che ci ha portati nel cuore del Sestiere Castello e all’antico Arsenale, con la sua monumentale Porta di terra e le due torri.Attraversato il ponte di legno dell’Arsenale e percorse la Fondamenta dell’Arsenale e quella che corre lungo il Rio della Tana, siamo arrivati alla Calle Nuova, caratterizzata da un’atmosfera d’altri tempi, quasi mediterranea, con quei panni sgargianti e festosi stesi ad asciugare sui fili tesi fra un’abitazione e l’altra.Da lì siamo poi giunti alla lunga, ampia e ariosa via Garibaldi (l’unica strada a Venezia che si chiami “via”, realizzata nel 1807 in età napoleonica, interrando il canale preesistente, e poi dedicata a Giuseppe Garibaldi dopo l’unità d’Italia) dove tra i banchi del mercato, i piccoli negozi, i bar e le osterie fuori mano, sopravvive ancora la vecchia anima popolare di Venezia, mentre i pochi turisti, spersi e stranamente silenziosi, sembrano dei soggetti alieni e fuori posto.Da via Garibaldi ci siamo poi diretti, passando per la Fondamenta Sant’Anna, verso la solitaria Basilica di San Pietro di Castello – posta sull’isola omonima – che fino al 1807 fu cattedrale del patriarcato di Venezia. L’isola, di origine antichissime, fu uno dei primi insediamenti di Venezia. La chiesa, con il suo campanile pendente e i vecchi chiostri abbandonati, ha un fascino molto particolare.

Da lì ci siamo diretti verso l’isola di Sant’Elena, la porzione più orientale di Venezia, posta fuori dagli itinerari turistici e poco conosciuta, silenziosa e solitaria, per poi prendere la strada del ritorno costeggiando il parco delle Rimembranze e i giardini della Biennale e infine arrivare a Riva degli Schiavoni giusto in tempo per goderci un infuocato e spettacolare tramonto sulla laguna e l’isola della Giudecca.

Riguardando le fotografie che ho scattato in quei due giorni mi sono accorto di avere catturato la realtà di una Venezia silenziosa e intima, segreta e misteriosa, in cui la figura umana è quasi assente o si riduce a un elemento di dettaglio sullo sfondo di una scena immobile e senza tempo, metafisica e deserta.

Mi ha colpito l’anima mediterranea e popolare, marinaresca e levantina, quasi meridionale, della parte più orientale del Sestiere Castello. Sono rimasto rapito dalla silenziosa quiete di alcune calli e campielli, dalla festosa, eppure misurata, allegria dei panni stesi ad asciugare tra una casa e l’altra che si tendevano come aquiloni gonfiati dal vento a colorare spicchi di cielo azzurro, portando frammenti di quotidiana intimità familiare nell’infinito. Una sensazione di soave e dolce leggerezza che mi è rimasta nel cuore.

So che Venezia è un soggetto che si presta meravigliosamente alle foto in bianco e nero, ma quelle che ho pubblicato sono tutte a colori. So benissimo che avrei potuto convertirle successivamente in bianco nero usando un programma di editing fotografico – a dire il vero l’ho anche fatto e alcune erano venute bene – ma alla fine ho abbandonato l’idea di pubblicarle. Ho già parlato in questo post della mia difficoltà d’approccio con la fotografia in bianco e nero.

Fotografare in bianco e nero presuppone un occhio particolare allenato a percepire la realtà come forme e linee, punti di fuga e prospettive, rapporti di forza ed equilibri dinamici fra superfici, presuppone che si ‘veda’ e si pensi per separazioni tonali, e non a colori. La fotografia in bianco e nero richiede molta più attenzione consapevole, più studio e chiarezza d’intenti, ancora prima di inquadrare attraverso il mirino della fotocamera.

Io non ero abbastanza distaccato quel giorno a Venezia. Vedevo e pensavo a colori, rapito da quella realtà per me nuova e inedita che si svelava ai miei occhi. Volevo catturare la bellezza di quei momenti e fissarla per sempre. Dove non sono arrivato con la fotografia spero di avere rimediato e supplito con la scrittura.