Alcune sere fa, mentre guardavo in tv l’ultimo episodio del commissario Montalbano, alla vista di una scena ambientata sulla terrazza in riva al mare del coloratissimo ristorante reso famoso proprio dallo sceneggiato televisivo tratto dai romanzi di Camilleri, mi sono ricordato di avere scattato delle foto di quel luogo nello scorso mese di maggio, durante un breve soggiorno di tre giorni in Sicilia.
Alcune di quelle foto erano atipiche e quasi astratte, molto poco rappresentative di una certa immagine della Sicilia. Una in particolare, pur essendo luminosissima e caratterizzata da colori saturi e brillanti, continuava a evocare in me, non so bene per quale motivo recondito e inconscia associazione di idee, sensazioni che di mediterraneo e insulare avevano ben poco, richiamando invece la purezza della luce estiva del grande nord e rigori compositivi e geometrici estranei agli stereotipi di solito associati alla Sicilia.
L’essenzialità della composizione e il nitore dell’inquadratura contribuivano ad accrescere questa sensazione di razionalità astratta e rigorosa che mi stupiva e affascinava, non fosse altro che per il soggetto e il luogo in qui la foto era stata scattata.
La foto è dominata dal forte contrasto cromatico tra il giallo e il blu ed è caratterizzata da triangoli e rettangoli in relazione dinamica fra loro. La composizione dell’immagine è perfettamente bilanciata e risulta suddivisa in due parti uguali lungo l’asse orizzontale.Le due parti (superiore e inferiore) sembrano pesare visivamente in modo eguale, sebbene gli elementi al loro interno siano di forma e dimensione diversa. Il diverso peso dei colori contribuisce a bilanciare ed equilibrare l’immagine, rendendo le due parti equipollenti e armoniche, seppure all’interno di una forte tensione dinamica.
Colori primari e forme geometriche elementari in relazione fra di loro. Niente di più. Elementi primari e primordiali immersi in un puro campo di forze.
Ma questo era lo studium dell’immagine. Continuava a sfuggirmi il punctum. O meglio, le ragioni del punctum.
In quel breve e bellissimo saggio che è La Camera Chiara. Nota sulla Fotografia (scritto nel 1979, a pochi mesi dalla morte) Roland Barthes poneva quella fondamentale distinzione tra i due statuti dell’immagine: Studium e Punctum.
- STUDIUM sono le intenzioni del fotografo, l’applicazione delle conoscenze e della tecnica fotografica per ottenere un determinato risultato.
- PUNCTUM è quel dettaglio estraneo, quel particolare improvviso, quella dissonanza imprevista che infrange lo Studium, quel piccolo punto aguzzo che colpisce e trafigge lo spettatore senza possibilità di difesa.
Lo studium è in definitiva sempre codificato, mentre il punctum non lo è mai.
Il punctum è quell’elemento a prima vista insignificante e secondario, quel dettaglio apparentemente estraneo all’ambito delle informazioni che la fotografia fornisce, e che colpisce la sensibilità dello spettatore, suscitando quell’emozione indefinibile, quel conturbante senso di straniamento che alcune fotografie sono in grado di suscitare.
Nel caso della fotografia in questione io ero contemporaneamente fotografo e spettatore. Sapevo che cosa avevo voluto fotografare e rappresentare, ma continuavano a sfuggirmi le ragioni profonde del perché quell’immagine mi colpisse in modo così imprevisto e soprattutto perché mi ricordasse il nord, e non il sud. Perché il nord? E cosa voleva dire questo?
Avevo una strana sensazione di déjà vu.
Era come se quella foto io l’avessi già vista, o ne avessi sentito parlare e ne avessi letto qualcosa tanti anni prima: il che era ovviamente impossibile. Sentivo vagamente, ma in modo forte e deciso, che era associata a qualcosa di importante che si era poi radicato in me in modo così profondo da farmene dimenticare l’origine. Come quando un pensiero o una frase ci colpiscono profondamente e la assimiliamo, la facciamo nostra inconsciamente, in modo totale e completo.
Guardando e riguardando quella foto più volte nelle settimane e nei mesi passati, avevo sempre avuto la sensazione di essere a un passo dal capire le ragioni di quella insolita associazione di idee, ma come quando si cerca di ricordare una parola che si ha sulla punta della lingua e per quanti sforzi si facciano essa continua a scivolarci e sfuggirci, lasciandoci con un’indefinibile sensazione di frustrazione, così la vera natura di quell’immagine che destava in me emozioni forti e potenti, continuava a sottrarsi ai miei tentativi di indagine, rimanendo relegata in una zona subliminale della coscienza dove le percezioni, i ricordi e il nostro vissuto convivono in uno stato indifferenziato e nebuloso. Continuava a sfuggirmi il punctum di quella foto, o meglio mi sfuggivano le ragioni ignote di quel punctum.
Il giorno dopo sono andato a rivedere quella foto che avevo già pubblicato a suo tempo sul blog, e appena l’ho vista è stato come se mille campane scattassero all’improvviso nella mia testa. E finalmente è stato tutto chiaro, cristallino, lampante.
Quella foto era una rappresentazione perfetta di un celebre passo de Lo spirituale nell’arte (1912) di Kandinskij, uno degli scritti più importanti della riflessione estetica del Novecento, nel quale il grande pittore e teorico russo affrontava con un approccio innovativo e interdisciplinare l’analisi delle arti figurative, comprendendo anche l’analisi di musica, letteratura e gli studi sulla percezione del colore, e ponendo le basi per la comprensione e la giustificazione dell’arte astratta di cui egli fu uno dei primi (forse il primo in assoluto, sicuramente il più lucido, determinato e consapevole dal punto di vista teorico e concettuale) e più grandi interpreti. Avevo studiato quel testo durante la preparazione dell’esame universitario di Storia dell’Arte Contemporanea, più di venticinque anni fa, e ricordo che mi aveva profondamente colpito ed emozionato.
Scriveva Kandinskij: “Il colore ha in sé una forza poco studiata ma enorme”.
“L’occhio viene attratto più intensamente dai colori più chiari, e ancor più, e ancor più intensamente, da quelli più chiari e più caldi (…). Il giallo-limone squillante dopo un po’ di tempo fa male all’occhio, così come una tromba che emette suoni alti ferisce l’orecchio. L’occhio diventa inquieto, non vi si sofferma a lungo e cerca approfondimento e riposo nel blu o nel verde” (Kandinskij)
e continua ancora Kandinskij:
“I colori acuti vengono sempre esaltati, acquistano un suono più acuto, quando sono associati a una forma acuta (ad esempio il giallo associato al triangolo). I colori che tendono all’approfondimento vedono questa tendenza accentuata da forme tondeggianti (per esempio il blu associato al cerchio)”.
“Andando molto in profondità, il blu sviluppa l’elemento della quiete. Affondando verso il nero acquista una nota di tristezza disumana (…). Quando trapassa in tonalità più chiare, per le quali è anche meno appropriato, il blu acquista un carattere più indifferente e si pone lontano dallo spettatore, come l’alto cielo di un azzurro chiaro. Quanto più chiaro è il blu tanto meno è sonoro, finché si arriva a una quiete muta, al bianco”.
“L’azzurro, rappresentato musicalmente, è simile a un flauto; il blu scuro somiglia al violoncello e, diventando sempre più cupo, ai suoni meravigliosi del contrabbasso; nella sua forma profonda, solenne, il suono del blu è paragonabile ai toni gravi dell’organo”.
Senza che me ne rendessi conto, nella placida solitudine di quel luminoso mattino di maggio dell’anno scorso, avevo colto e catturato nella luce tersa di un’isola del Mediterraneo un’epifania di concetti teorici ed estetici, una visione e un’interpretazione della realtà e dell’arte espresse quasi cento anni prima da un grande uomo e artista del nord. Il russo Vasilij Kandinskij.