Cartier-Bresson diceva che «ci sono fotografi che inventano, altri che scoprono». Forse esiste una terza categoria di fotografi: quelli ‘che cercano’, quelli che per mezzo della macchina fotografica vanno alla ricerca di qualcosa per tentare di conoscere meglio il mondo e alla fine loro stessi.

Adesso che l’estate volge al termine ed è passato più di un mese dal mio ritorno, posso accingermi con il necessario distacco a tentare di dare forma a una sorta di diario fotografico del mio ultimo breve viaggio in Sicilia ed elaborare una serie di riflessioni scaturite dal viaggio stesso e dal lavoro di analisi e selezione delle fotografie che accompagnano questo post.

Ho sempre considerato la fotografia come una forma di conoscenza del mondo, più che un’arte. Più vicina alla filosofia e alla scienza, in questo senso. Sin da ragazzo sono stato affascinato dalla possibilità che essa offre di catturare un attimo e un luogo circoscritti nel tempo e nello spazio, registrarli e fissarli per sempre in un’immagine che sopravvive alla realtà stessa, sottraendoli alla morte e all’oblio.

In questo suo essere attestazione reale e sempre presente, manifestazione paradossale e visibile di un passato che non esiste più, la fotografia manifesta tutta la sua natura «spettrale», come la definiva Roland Barthes, e ci spinge a interrogarci sul nostro rapporto con la realtà.

Questa necessità di riflettere sull’esperienza fenomenica del mondo e sulla complessa rete di relazioni che intratteniamo con la realtà, viene da me avvertita con maggior forza e urgenza ogni volta che torno in Sicilia, la terra in cui sono nato e cresciuto e nella quale ho trascorso la prima parte della mia vita, fino alle soglie dell’età adulta.

Realtà, memoria e identità

Ad ogni ritorno nell’isola dove sono nato, avverto una certa difficoltà iniziale nel mettere a fuoco la realtà e ad entrare in sintonia con essa. Provo un senso di straniamento che mi impedisce di vedere e vivere quei luoghi familiari con la stessa naturalezza dei miei conterranei che sono rimasti in Sicilia.

Vedo la realtà con occhi diversi, in modo ambivalente e contraddittorio. È come se fossi una persona del posto e allo stesso tempo uno straniero, oscillando continuamente tra le due condizioni ma non aderendo mai pienamente a nessuna delle due. Percepisco e riconosco ogni sfumatura della mia terra, ogni odore, ogni suono, ogni dettaglio, ma dentro di me risuonano con un’eco diversa.

Dalla memoria riemergono e si affollano immagini, sensazioni e ricordi vividi di quei luoghi familiari che si sovrappongono ed entrano in collisione con la mia visione ed esperienza attuale. C’è uno sfasamento, un disallineamento sottile tra le immagini della memoria – o meglio, tra le tante immagini che si sono sedimentate nella memoria in tempi diversi – e l’esperienza del presente.

È come se la realtà assumesse una complessità nuova e a me ignota, come se diventasse un poliedro multidimensionale dalle infinite facce che può essere esplorato in tempi e modi diversi, attraverso percorsi conoscitivi sempre nuovi che conducono ogni volta a un approdo finale diverso.

Tutto sembra più bello nella luce falsata e selettiva del ricordo: la nostra infanzia, la nostra gioventù, l’epoca dei nostri padri e dei nostri nonni. La fotografia, con la sua implacabile rappresentazione oggettiva e, al contempo, la sua straordinaria capacità fantasmatica, ci riporta inevitabilmente nella realtà, a smitizzare il bel tempo che fu.

La nostra identità non è immutabile, qualcosa di dato una volta per sempre, ma si modifica nel tempo, viene plasmata dagli eventi della vita e dalle esperienze, si impregna dell’aria e della luce dei luoghi in cui viviamo. E lentamente muta anche la nostra stessa concezione di casa, di ambiente familiare, ci trasformiamo irrimediabilmente in qualcos’altro. E muta la nostra visione del mondo.

Sulla fotografia e il fotografare

Queste considerazioni basate sulla mia esperienza personale, mi hanno portato nel corso del tempo a riflettere sul significato che ha per me fotografare. Ho ripensato alla mia concezione di fotografia, a quello che negli anni ho elaborato, più o meno consapevolmente, sulla natura e l’essenza della fotografia.

Mi sono interrogato sulle ragioni e il senso del mio fotografare: perché continuo a fotografare? Che significato ha per me oggi fotografare e pubblicare le foto online? Cosa mi propongo di raggiungere al di là del piacere effimero e momentaneo regalatomi dall’inquadratura e dallo scatto?

Se scrivere è tentare di dare un ordine alle cose, fotografare è forse un modo di comprendere il mondo, e alla fine, noi stessi.

Quello che emerge dal fondo dell’esistenza è l’enorme mancanza di senso del tutto. Fotografare è forse il tentativo di riconoscersi e ritrovarsi nel mondo esterno. Un modo di ritrovare l’unità e l’armonia perduta nella trama sfilacciata dell’esistenza e vivere più intensamente.

Ogni cosa esiste esclusivamente in relazione a qualcosa d’altro, e noi stessi mutiamo nel tempo. Fotografare non è altro che il tentativo di delineare una sorta di autoritratto interiore – sempre mutevole, sempre instabile, sfuggente, mai definitivo – attraverso la cattura di momenti e frammenti di realtà che testimoniano la nostra relazione con il mondo.

In fondo, la fotografia non è che un tentativo effimero, sempre labile e incerto, di autorappresentarsi e fissare la propria identità in un dato momento. Un autoritratto interiore realizzato attraverso fotografie.

Fotografare permette di guardare oltre la superficie dei fenomeni, sempre cangianti, sempre diversi, per cercare di avvicinarsi alla realtà che è inafferrabile nella sua essenza.

La macchina fotografica è lo strumento che mi permette di portare avanti questa personale ricerca e di interrogarmi sul mio rapporto con il mondo.

Le foto del viaggio in Sicilia

Riguardando con attenzione le fotografie che ho scattato a metà agosto in Sicilia e che ho selezionato per questo breve diario fotografico, mi sono reso conto che nella maggior parte dei casi rappresentano spazi vuoti, distese marine, vicoli notturni deserti, campagne avvolte nel silenzio, atmosfere sospese, paesaggi quasi metafisici, senza tempo, in cui si avverte una tensione sottile ma palpabile, dovuta all’assenza di figure umane.

Sono luoghi familiari a me cari che conosco molto bene, luoghi radicati dentro di me che fanno parte del mio essere e che in un certo senso sono costitutivi della mia personalità. Eppure sento che in loro permane qualcosa di inavvicinabile e inafferrabile, qualcosa di ignoto che sfugge a ogni tentativo di conoscenza, un nucleo di adamantina e misteriosa bellezza che rifiuta ogni tentativo di semplificazione o riduzione a categorie concettuali.

È questo il motivo per cui mi avvicino a questi luoghi con una sorta di sacro ma laico rispetto, cercando ogni volta di cogliere con la macchina fotografica un lato sconosciuto mai rivelato prima, scostando volta per volta uno degli innumerevoli veli che li ricoprono per intravedere un po’ della loro bellezza e avvicinarmi di più alla loro essenza.

Sono spazi reali e al tempo stesso simbolici che rimandano a una dimensione mentale e onirica. È il mondo che si pone come oggetto di conoscenza, sempre parziale, sempre sfuggente, sempre inconoscibile nella sua essenza e totalità.

Attraverso le fotografie cerco di vedere come cambiano quei luoghi e come cambia la percezione che ne ho. Il che equivale a dire, come cambio io. Una serie di fotografie di luoghi, di rappresentazioni sempre diverse, sempre cangianti, che messe insieme costituiscono una sorta di autoritratto interiore in perenne divenire.

«Un uomo si propone il compito di disegnare il mondo. Trascorrendo gli anni, popola uno spazio con immagini di province, di regni, di montagne, di baie, di navi, d’isole, di pesci, di dimore, di strumenti, di astri, di cavalli e di persone. Poco prima di morire, scopre che quel paziente labirinto di linee traccia l’immagine del suo volto»

Jorge Luis Borges, Epilogo, in L’artefice, 1960