«Ci sono luoghi che affascinano perché sembrano radicalmente diversi e altri che incantano perché, già la prima volta, risultano familiari, quasi un luogo natio. Conoscere è spesso, platonicamente, riconoscere, è l’emergere di qualcosa magari ignorato sino a quell’attimo ma accolto come proprio. Per vedere un luogo occorre rivederlo».
(Claudio Magris, L’infinito viaggiare)

Mi è difficile, ancora adesso, trovare le parole adatte per descrivere le impressioni suscitate in me dalla visita ad Alghero. Me ne sono innamorato da subito, appena ho iniziato a percorrere in auto i viali alberati del lungomare che conducono al cuore della città vecchia. Ampio, luminoso, ornato da palme alte ed eleganti, il lungomare di Alghero è costeggiato da sontuose ville liberty costruite tra fine Ottocento e inizi del Novecento, alcune delle quali ospitarono spesso i regnanti di Casa Savoia.

Non saprei bene spiegare perché mentre attraversavo questo lungo viale, ammirando le palme alte che si slanciavano verso il cielo, gli alberghi e le ricche dimore sulla sinistra e il panorama del porto turistico sulla destra, mi è venuta in mente la celebre “promenade des Anglais” di Nizza, città che non ho mai visitato di persona ma che, per quegli strani giochi associativi della memoria e dell’immaginario, mi sembra di conoscere da sempre.

Quando siamo arrivati ad Alghero era ancora pomeriggio, non faceva eccessivamente caldo e l’aria era rinfrescata da una piacevole brezza marina. Il sole era ancora alto sull’orizzonte e la sua luce dorata illuminava le facciate dei palazzi del lungomare. Parcheggiata l’auto poco distante dal centro storico, ci siamo avviati a piedi in direzione della città vecchia, l’Alguer Vella, come ancora oggi viene chiamata in catalano dai suoi abitanti. Alghero, infatti, è conosciuta anche come Barceloneta, la piccola Barcellona, per aver conservato ben vivo l’uso del catalano, di cui è un’isola linguistica – di fatto, un’isola dentro un’altra isola – che nella variante algherese è parlato ancora da oltre un quinto dei suoi abitanti.

Di fronte a noi, il profilo della città vecchia si stagliava netto in controluce, disegnando nel cielo una linea complessa fatta di tetti, torri, campanili e mura secolari che per secoli hanno fatto da cerniera tra la terra e il mare. All’orizzonte, la sagoma scura e imponente del promontorio di Capo Caccia si allungava sulla rada del porto di Alghero, abbracciando gran parte dell’insenatura e vegliando sulla città come un benevolo animale preistorico, protettivo, placido e indolente.

Attraversate le massicce mura dal lato dell’antica dogana, siamo sbucati nella splendida Piazza Civica (Plaça Civica), uno dei salotti della città, sulla quale si affacciano i palazzi prestigiosi che un tempo furono le sedi istituzionali più rappresentative dell’Alghero catalana. Passeggiando tra i vicoli in acciottolato del centro storico di Alghero, ammirando le magnifiche facciate in pietra color miele degli edifici civili tardo-rinascimentali, osservando l’originale commistione di stili architettonici diversi – romanico, gotico-catalano e neoclassico – che caratterizza le sue chiese, si percepiva chiaramente la sua peculiare natura di città eclettica che ha saputo integrare, elaborare e metabolizzare, nel corso dei secoli e delle sue diverse fasi storiche, lingue e culture diverse: sarda, genovese, catalana e sabauda.

Negli angoli delle strade del centro storico, tra le botteghe che esponevano preziose collane e monili di rosso corallo e i tanti ristoranti e caffè che animavano le vie, il mio sguardo è stato più volte attratto dalle targhe toponomastiche recanti i nomi delle vie e delle piazze con la doppia dicitura, in italiano e in catalano, ad attestare l’identità bilingue, ancora ben viva.

Ogni angolo della città ha riservato sorprese. Quando ho sollevato lo sguardo verso l’alto, mi si è rivelata una dimensione nascosta e inedita della città, borghese e popolare al tempo stesso: ho intravisto facciate di palazzi dalle linee indecifrabili – ora arabeggianti, ora spagnole, ora lussuose ora decadenti – che racchiudevano storie personali e familiari a me ignote sulle quali ho fantasticato a lungo, indugiandovi; ho scorto persiane di legno dipinte di verde smeraldo, con le ante aperte sui vicoli sottostanti che brulicavano di passanti, lasciando trapelare l’eco di voci e suoni smorzati dall’interno delle abitazioni; ho ammirato balconi e davanzali ornati di gerani coloratissimi che si offrivano generosi allo sguardo; ho fotografato terrazze bellissime, impreziosite da pergolati di ferro battuto in stile liberty, sulle quali si arrampicavano bouganville e roseti; sono rimasto incantato da scorci prospettici inaspettati che si aprivano su archi, bifore e cupole, in una trama complessa di cui era arduo distinguere i singoli elementi; ho osservato lampioni dalle linee eleganti e balconi preziosamente decorati; sono rimasto incantato ad osservare i panni stesi ad asciugare da un balcone all’altro che attraversavano le strade strette della città vecchia, quasi a testimoniare la vitalità e la resistenza della sua anima più popolare.

Sospesa tra le mura e il mare, fra la sua identità sarda e quella catalana, Alghero è sicuramente una delle città più belle, vivaci e affascinanti del Mediterraneo. Passeggiare nell’ora del tramonto sui bastioni spagnoli cinquecenteschi che la cingono dal mare, è un’esperienza dal fascino unico che regala emozioni indimenticabili. La via, animata da caffè e ristoranti tipici, è uno dei luoghi preferiti da algheresi e turisti e non si può non rimanere incantati dal colpo d’occhio prospettico offerto dagli antichi camminamenti sulle mura e dalle numerose torri che facevano di Alghero una fortezza imprendibile.

Ed è stato in questo posto di indicibile e antica bellezza, ammirando il sole che tramontava dietro il promontorio di Capo Caccia, mentre il cielo si accendeva di rosso e il mare trascolorava in una tonalità indefinibile, morbida e vellutata, e dal profondo della mia memoria riaffiorava, nitido e potente, il verso di Omero “navigando sul mare color del vino, verso genti straniere”, che ho avvertito netta la sensazione di essere già stato infinite volte in quel luogo, in epoche e tempi diversi: tutte le volte che, specchiandomi nel mare, mi è sembrato che le cose rivelassero il loro segreto e ho percepito lo stupore primigenio dell’uomo di fronte al mondo, avvertendo forte il richiamo irresistibile del viaggio verso l’ignoto.

«[…] Il porto
accende ad altri i suoi lumi; me al largo
sospinge ancora il non domato spirito,
e della vita il doloroso amore.»
(Ulisse, Umberto Saba)

E mentre le prime luci si accendevano sulla sommità di Capo Caccia, ho promesso a me stesso che sarei ritornato ad Alghero. Per rivederla e riconoscerla. Non d’estate, quando i turisti l’affollano, snaturandone l’identità, ma nella placida quiete dell’autunno, o nel solitario ripiegamento dell’inverno, quando la furia del maestrale gonfia il mare e spazza le strade, ed è bello rifugiarsi al caldo tra quattro mura ospitali, trovando ristoro in un bicchiere di buon vino, ascoltando storie antiche di marinai. Antiche come il mondo.