Adesso che sono passati più di due mesi dalla fine delle mie vacanze in Sardegna, e i ricordi più immediati ed effimeri del viaggio sono volati via, evaporati come sogni che si dissolvono al mattino, posso accingermi con un certo distacco a descrivere i luoghi che più mi hanno colpito, rievocando le sensazioni e le immagini che si sono sedimentate nella mia memoria e che a distanza di tempo hanno assunto forme e toni diversi da quelli iniziali.

Con il passare degli anni ho maturato la convinzione della necessità di una rielaborazione lenta e meditata delle proprie esperienze e riflessioni, prima di condividerle in forma durevole per mezzo della scrittura o della fotografia. Sono tanti gli articoli del mio blog iniziati e poi abbandonati a metà, tante le fotografie non pubblicate, dimenticate e poi riscoperte a mesi o anni di distanza. Scrivere mi impegna molto più di una volta, sia nella fase di scrittura, che è sempre travagliata, impulsiva e frenetica, sia nel controllo della forma e nella revisione del testo, che si è fatta severa, intransigente, a tratti anche spietata, mai indulgente o consolatoria, al punto che preferisco cancellare del tutto un articolo su cui ho lavorato anche dei giorni, se il risultato finale non mi soddisfa pienamente.

Credo però che ci siano altri fattori, oltre all’insoddisfazione e alla perenne ricerca di perfezione che mi assalgono quando mi accingo a scrivere, che contribuiscono ad accrescere questa forma di ritrosia che si manifesta principalmente con la netta diminuzione dei miei interventi sui social network e con la progressiva rarefazione della frequenza di aggiornamento del mio blog.

Un ruolo fondamentale è sicuramente giocato dalla mia crescente insofferenza verso i social network, nei quali, nel bene e nel male, mi trovo anch’io inevitabilmente coinvolto. Un coinvolgimento che mi crea un disagio sempre maggiore e che mi spinge a cercare di stare fuori, quanto più possibile, dalla caciara di questo rutilante circo equestre del narcisismo digitale, dalla tendenza generale sempre più dilagante per cui ogni abbozzo informe di riflessione, ogni aspetto della propria vita intima e privata, viene condiviso, ostentato e reso pubblico in tempo reale – senza alcun filtro, mediazione o rielaborazione – con una superficialità, un’incoscienza e una sottovalutazione delle implicazioni e delle conseguenze che mi lasciano basito. Questo presenzialismo invadente, rumoroso ed eccessivo mi ha portato a riconsiderare e apprezzare il valore del silenzio, a coltivare un ritrovato senso della sobrietà, della riservatezza, della lentezza e – non ultimo – anche del pudore.

Un secondo elemento, strettamente collegato al primo, che condiziona questa mia ricerca di sintesi e di essenzialità, è quello che, per usare una felice definizione coniata dal critico e storico dell’arte Gillo Dorfles, potremmo chiamare “horror pleni”: uno stato d’animo, un sentimento, una condizione che spinge ad aborrire il “troppo pieno”, la confusione, il rumore di fondo, il chiacchiericcio inutile, l’incontinenza comunicativa tipica di questi tempi e a privilegiare il vuoto, l’ordine, la pausa, l’assenza, il procedere per sottrazione anziché per accumulo.

Viviamo in una società in cui l’eccesso di informazione genera sempre più rumore e distrazione e si tende a privilegiare il contesto rispetto al testo. Siamo distratti da troppe informazioni non necessarie, assordati dal brusio di fondo che rende ogni cosa omogenea e interscambiabile, per cui sembra che tutte le opinioni si equivalgano. Di fonte a questo scenario che conduce alla perdita totale di significato e all’azzeramento del senso, avverto la necessità forte di tornare a discernere e selezionare, separare l’essenziale dal superfluo, rielaborare e raffinare le mie idee in relazione alla realtà. Anche perché – e qui veniamo al terzo elemento – l’interpretazione dei fatti e i nostri stessi ricordi mutano con il passare del tempo.

La rielaborazione, o della memoria

Ogni volta che ricordiamo un evento e lo richiamiamo alla memoria, modifichiamo il ricordo stesso, ne cambiamo impercettibilmente le caratteristiche, applichiamo correzioni e aggiustamenti, alteriamo il contesto e lo svolgersi degli eventi, rimoduliamo i fatti e le impressioni sulla base dello stato emotivo del momento. Aggiungiamo dettagli inediti e ne eliminiamo altri, creiamo concatenazioni logiche e associazioni emotive nuove, in quello che si configura a tutti gli effetti come un circolo creativo continuo. Così, la volta successiva richiameremo alla memoria un ricordo che è il ricordo modificato di un fatto, una ricostruzione narrativa in cui facciamo sempre più fatica a discernere quello che è accaduto da quello che abbiamo aggiunto successivamente, in modo più o meno conscio: una rielaborazione in gran parte fittizia che diventa sempre più distante dall’evento originario, fino a vivere quasi di vita propria. La memoria è un meccanismo dinamico di trasformazione dei contenuti che opera incessantemente. I fatti ricordati vengono riplasmati e reinterpretati ogni volta in modo diverso.

Quando, nella prima decade di agosto, sono tornato dal mio breve viaggio nel nord-ovest della Sardegna con ancora ben vivi dentro di me la luce e i colori del mare, i profumi e le sensazioni di quella bellissima terra, ero animato dall’intenzione di selezionare alcune fra le centinaia di fotografie che avevo scattato e scrivere per il mio blog il classico articolo estivo che parlasse di vacanze.

Ma, sia per mancanza di tempo, sia perché – come tutti – ero quotidianamente inondato da centinaia di foto di mare e vacanze pubblicate su Facebook, continuavo a rimandare la stesura dell’articolo e a chiedermi in cosa le mie fotografie e le mie riflessioni avrebbero dovuto differenziarsi per distinguersi dalle altre.

Mentre mi perdevo con indolenza in queste riflessioni e le settimane scorrevano, mi rendevo conto, non senza stupore, che il ricordo di quella che era stata una normale vacanza al mare era nel frattempo mutato. Nella mia memoria, i luoghi che avevo visitato avevano perso parte delle loro caratteristiche originarie, almeno per come le ricordavo prima: adesso mi sembrava tutto più sfumato, ridotto all’essenziale, semplificato, privo di dettagli inutili e ridondanti. Nei miei ricordi anche la luce si era fatta meno dura e intensa: era diventata morbida e soffusa, aveva assunto le tonalità calde e dorate del sole di settembre. Il blu e il verde del mare avevano perso i toni accesi, puri e squillanti da cartolina caraibica, ed erano diventati meno saturi e brillanti; perfino le spiagge e i paesi mi sembravano ora molto meno affollati, come se si fossero lentamente svuotati con il finire dell’estate.

Alla fine, nella mia memoria, rimanevano dei luoghi archetipici e simbolici, delle sensazioni che non ero più certo di avere provato e vissuto nel modo in cui adesso riaffioravano e rivivevano lentamente dentro di me, mutevoli e cangianti, facendosi narrazione.

Ho dovuto affidarmi alle fotografie che avevo scattato, alla loro incontrovertibile oggettività ed evidenza, per ripristinare un equilibrio incerto tra la realtà e la memoria.

Quella che segue è quindi la rielaborazione tardiva di un viaggio, giocata sul filo del ricordo, dell’immaginazione e della suggestione narrativa innescata dalla riflessione sui meccanismi psicologici della memoria. O forse, è solo il sogno di un viaggio.